Pentling, Regensburg, Germania. Foto di Gianni Augello

Traccia libera

L’errore più grande è stato smettere di scrivere. Ricordo esattamente quando ho iniziato, ma faccio fatica a richiamare alla mente il momento in cui ho smesso. Sebbene affilassi parole con un minimo di senso dalle scuole elementari, ho iniziato a scrivere davvero a 18 anni. All’ultimo anno delle superiori. Prima prova di italiano del secondo semestre. Una di quelle decisive per la maturità. Quando c’era ancora il voto in 60esimi. Quattro ore per un tema. Era un lunedì. Fino a quel momento non avevo mai brillato in italiano. Non solo per la forma, ma anche per le idee, i contenuti. Ho sempre riempito i fogli di protocollo con una quantità imprecisata di banalità. Ed è per questo che quando arrivava la prova di italiano sceglievo sempre la traccia libera. Non ho mai studiato prima di un compito di italiano. E non avevo la minima intenzione di iniziarlo a fare proprio nell’ultimo anno delle scuole superiori. Per me era un giorno di vacanza, che iniziava dal pomeriggio prima, visto che il compito occupava praticamente tutta la giornata. A scuola andavo col Piccolo Palazzi, il dizionario di italiano tascabile passato dalle mani di mio fratello a me. Il mio compagno di banco, invece, portava quello dei sinonimi. Basta. Niente zaino. Mente sgombra e proiettata al termine della giornata scolastica. Mai dato importanza a quel momento. Mai.

Poi, un lunedì cambiò tutto. Non so dire perché, ma è successo. Ricordo bene la traccia libera, che per me ovviamente era una scelta obbligata. Parlava della sofferenza. Non so dire cosa sia successo, ma quel giorno vennero scardinati tutti gli schemi di scrittura che avevo adottato fino a quel momento. Attacco. Svolgimento. Conclusione. Dopo aver letto la traccia un paio di volte, mi bloccai. Passai tre delle quattro ore a disposizione a fissare il pavimento illuminato dal sole che filtrava dall’unica finestra dell’aula. Braccia conserte. Tutt’intorno il rumore di decine di penne intente a graffiare fogli di carta vergini, immacolati come sanno essere solo i fogli di protocollo appena acquistati. Il mio storico compagno di banco aveva finito di riempire la brutta copia da un pezzo. Io, invece, non avevo minimamente idea di come dire quel che avevo dentro. Fino all’ultima ora disponibile. Anche il professore se ne accorse. Tanto che, preoccupato, mi invitò a buttar giù qualcosa. Ma una fionda scatta solo se lasci andare la presa. E così fu. Decisi di rompere gli schemi.  Raccontai una storia attraverso una voce narrante. Terza. Immaginai di stare seduto sulla spalla del protagonista della sofferenza di cui parlava la traccia. E la raccontai. Riempii tutte e quattro le pagine del foglio di protocollo di colpo. Senza cancellature. E consegnai in brutta senza rileggere. Non c’era più tempo.

Tornai a casa con la stessa sensazione di aver appena vomitato. Lo stesso sapore in bocca. E con la quasi assoluta certezza di aver fatto la cazzata dell’anno. Per di più, l’anno decisivo. Ma in mezzo ai pensieri nauseabondi albergava la convinzione di aver fatto di testa mia, almeno per una volta. Senza seguire schemi e neanche quella diffusa opinione per cui la strada battuta sia quella sicura. Deviai. Di colpo. Come se stessi tagliando un percorso fatto da decine di tornanti attraverso le sterpaglie. Presi la via più rapida e al tempo stesso quella più ripida. E quando la mia bic nera si fermò sull’ultimo punto, solo una parola era in grado di descrivere quel che sentivo. Dentro. Wow. Quella fu la prima volta che impugnai davvero una penna.

Quello che è successo dopo è complicato da spiegare in poche parole. Gli elementi preparati nel laboratorio del mio futuro non reagirono come avrebbero dovuto. Ed io non compresi appieno la formula di quella mia catarsi. Ripresi a mettere in pratica gli schemi. Università. La ricerca di un lavoro sicuro. Fino al giorno in cui, di fronte all’ennesimo professore universitario, mi ritrovai come quel giorno. In classe. Braccia conserte. E una traccia libera da buttar giù. Ricordo ancora quell’esame. Farmacologia generale. L’ultimo di quel percorso iniziato più per logica, che per passione. Feci scena muta, ma non perché non sapessi rispondere. Non avevo alcuna intenzione di farlo. E come accadde una manciata di anni prima, deviai. Me ne andai con la stessa sensazione di aver appena vomitato. Ma quella volta non pensai neanche un attimo di aver fatto una cazzata. Così, nel turbinio dei vent’anni, mi trovai per lavoro davanti ad un foglio bianco, ogni giorno. E come è stato allora, è oggi. Il bivio inesistente su una strada dritta. Lo schema o la deviazione. È così che ho smesso di scrivere, nonostante da anni lo faccia ogni giorno. Alla fine del 2023 ho fatto un bilancio. Negli ultimi anni ho sparato online milioni e milioni di battute. Le 5W, il lead, i virgolettati, le fonti: ho rispettato tutte le regole. Tutte. Ma ho smesso di scrivere. Quando non so dirlo con precisione, ma ho smesso.

La tastiera del mio computer ha smesso di gracchiare come una mitragliatrice giocattolo da un bel po’. Sono al mio posto ben oltre l’orario dovuto. Ho le braccia conserte. La luce riflessa sul mio volto è quella di un monitor. Sotto ai miei occhi una bic nera. Nuova.

Per viaggiare basta un paio di scarpe nuove. Lo dice una vecchia canzone e io ci credo. Sono un giornalista e conto il km dei miei viaggi. "L'Italia che resta" (Ediciclo Editore, 2021) è il mio primo libro.

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Ho sempre creduto che per una buona storia fosse necessario andare lontano. Poi ho iniziato a guardare le cose da vicino. 
Io sono Gianni Augello e questa è la mia frontiera. Dentro.

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Per viaggiare basta un paio di scarpe nuove. Lo dice una vecchia canzone e io ci credo. Sono un giornalista e conto il km dei miei viaggi. "L'Italia che resta" (Ediciclo Editore, 2021) è il mio primo libro. www.gianniaugello.it